La Scalinata dei Larici Monumentali
Il racconto di Marcello
Tratto dal libro LA SCALINATA DEI LARICI MONUMENTALI, è l'inizio del racconto di Marcello Mazzucchi, autore del libro, che accompagnato da Giulio, percorre, in una giornata di tempo incerto, il macereto dove nascerà questo affascinante percorso.
Eravamo arrivati da poco, la sede del Centro Visita del Parco era ancora chiusa, poco avanti il grande albergo appena ristrutturato e di fronte le Terme. Un viaggio di due ore per arrivare a Fonti di Rabbi, Marcello guida piano e mentre guida racconta, non è vero che parla solo con gli alberi. Io, nei nostri frequenti spostamenti in macchina, all'andata non dormo, ascolto. Già da alcuni giorni sapevo che saremmo arrivati lì per andare poi più in su, a Prà di Saènt a vedere degli alberi particolari, che Marcello aveva scoperto. Sapevo che dovevamo imparare a raccontarli ma in quelle due ore, ascoltando, avevo cominciato a capire meglio o perlomeno lo credevo. Marcello parla lentamente, pensa le singole parole e le ripete piano solo dopo averle pensate. La parte più importante del racconto iniziò poco dopo Mezzolombardo, io ovviamente ascoltavo.
Avevo programmato da tempo un'escursione in alta Val di Saènt, sperando in una giornata di sole ma il giorno stabilito, il 5 novembre, c'è una nebbia fitta che limita la visibilità a poche decine di metri e cade un sottile nevischio. Con Giulio che mi accompagna e conosce quei luoghi come le sue tasche ci guardiamo negli occhi mentre mettiamo lo zaino in spalla con un comune pensiero, vale proprio la pena di proseguire? Non scorgo nemmeno l'imbocco del sentiero, ma giacché siamo qui perché rinunciare? "Saènt non mi ha mai deluso." Dice Giulio. Camminiamo lentamente con un orizzonte ristretto e non potendo vedere lontano, si guarda vicino in tutte le direzioni, anche in basso, si appoggia una mano su uno spuntone di roccia, sul tronco di un albero... si guarda e si ascolta, si impegnano e si scoprono le capacità di tutti i sensi... Un po' di luce viene dal basso, dai fili d'erba secca rivestiti di una sottile lamina di ghiaccio, ricurvi come archi fino a toccare terra e poi dai licheni gialli che punteggiano qua e là come piccole stelle i sassi e la roccia scura. Tutto sembra perdersi nel vuoto, i primi piani sfumano nell'infinito. Il gorgoglio di ogni rigagnolo accompagna quel silenzio, si sente l'acqua scorrere sotto i piedi. Lo interruppi solo un momento per dirgli che spesso mi era capitato di pensare che il rumore dell'acqua, qualsiasi rumore d'acqua, aiutasse a sentire il silenzio. Fece un cenno d'assenso con la testa e continuò il suo racconto. Poco per volta ci sentiamo immersi in un mondo che ci riserva inaspettate emozioni, quel tempaccio non ci dà più fastidio. Probabilmente siamo gli unici uomini a Saènt quel giorno ma le tante impronte degli zoccoli di camosci e cervi lungo il sentiero ci fanno sentire in buona compagnia. In quell'ambiente ovattato gli animali si sentono tranquilli, noi facciamo fati-ca ad accorgerci di loro ma pure loro avvertono in ritardo la nostra presenza e sembra di cogliere il loro stupore quando alzano la testa, annusano e la girano di qua e di là prima di scappare veloci nel vedere degli intrusi nel loro mondo, con quel tempo. Le distanze si accorciano incredibilmente. La punta di un sasso la si può confondere con la testa di un camoscio. Facciamo scommesse. "Quello è un maschio di due anni!" sentenzia Giulio dall'alto della sua esperienza, ma qualche volta anche lui è tratto in inganno. Siamo nel regno dei camosci, in tre o quattro ore ne conteremo più di cento oltre ad alcuni cervi. Se ne vedono di isolati e a gruppi di 2-3 fino a 20-30. Capita spesso di sentirli prima ancora di vederli ed è un rumore che si avverte in due tempi, quando battono il terreno correndo e saltando e quando, di lì a poco, è il terreno stesso che rimbomba: La pernice bianca si vede difficilmente in montagna, figurarsi quel giorno. Ma il suo canto è inconfondibile e così vicino che forse è lei che guarda tranquillamente noi. All'improvviso un frullo d'ali, poco sotto il sentiero di Campisol, sopra una corona di rocce. È l'aquila che da un ramo di un larice si libra in volo distendendo le sue enormi ali prima di scomparire nel vuoto. Nemmeno gli alberi accettano di essere comprimari nel palcoscenico della natura. Oggi nella nebbia, larici e abeti nascondono le loro chiome protese verso il cielo e mettono in bella mostra i loro tronchi che per noi diventano un sicuro appoggio e validi punti di orientamento tornando e scendendo verso Prà di Saènt. Ce ne sono di giganteschi che spuntano tra quelle pietre. In due non riusciamo ad abbracciarli. Alcuni hanno la circonferenza all'altezza del nostro petto di quattro metri e più e poi hanno forme così bizzarre e sorprendenti! Chi l'avrebbe detto, si lascia scappare il Giulio, eppure sono passato tante volte da questa valle. Sarebbe bello ricavare un sentiero su questo macereto per permettere a tanta gente e con ogni tempo di avvicinarsi ai maestosi giganti che da secoli vegliano sulla pace che regna in questa valle. Chissà quante cose avranno da raccontare a chi farà loro visita e li guarderà con ammirazione, stupito!
Dopo una breve pausa, girandosi quasi di scatto, come se avesse dimenticato qualcosa, mi disse che Giulio, da sempre grande appassionato di fauna, da quel giorno divenne anche un amante degli alberi. Poi Marcello smise di parlare, guidava come sempre piuttosto vicino al volante e aspettava che dicessi qualcosa. Se soltanto si fosse girato si sarebbe accorto subito che anch'io, in quel momento, stavo provando a pensa re le parole. Il racconto era stato affascinante e aveva creato, come spesso succede in questi nostri viaggi, un'atmosfera magica in quella vecchia macchina grigia. Facevo fatica ad aprire bocca per chiedergli, io che non conoscevo quei posti, quanti fossero i larici e quanto avrebbe dovuto essere lungo il sentiero e quanto ripido. Mi chiedevo poi cosa potessero avere di straordinario quei larici, in fondo erano solo alberi e Marcello, tecnico forestale, di alberi ne vede tutti i giorni. Dissi quindi solo cose vaghe ma ben pensate e dopo poco eravamo fuori dalla macchina davanti al Centro Visita. Avremmo comunque proseguito da soli e avremmo dovuto risalire in macchina per alcuni chilometri ma quella sosta era d'obbligo. Marcello doveva salutare il Giulio e gli altri operai del Parco, perché lui, che per il Parco dello Stelvio lavora da tempo, sostiene sempre che il Parco non è solo ambiente naturale, animali e piante, è anche gente, uomini e donne che in queste terre vivono e lavorano. Un saluto veloce a cui ovviamente partecipai anch'io per le presentazioni di rito. Facce segnate e sorrisi timidi, un po' come la loro valle. Pensavo che avremmo usato la macchina grigia ma uno di loro si offerse per darci un passaggio con un fuoristrada del Parco, così potevamo arrivare già fino a malga Stablèt e poi proseguire a piedi verso i larici di Marcello. C'era il sole.
Eravamo arrivati da poco, la sede del Centro Visita del Parco era ancora chiusa, poco avanti il grande albergo appena ristrutturato e di fronte le Terme. Un viaggio di due ore per arrivare a Fonti di Rabbi, Marcello guida piano e mentre guida racconta, non è vero che parla solo con gli alberi. Io, nei nostri frequenti spostamenti in macchina, all'andata non dormo, ascolto. Già da alcuni giorni sapevo che saremmo arrivati lì per andare poi più in su, a Prà di Saènt a vedere degli alberi particolari, che Marcello aveva scoperto. Sapevo che dovevamo imparare a raccontarli ma in quelle due ore, ascoltando, avevo cominciato a capire meglio o perlomeno lo credevo. Marcello parla lentamente, pensa le singole parole e le ripete piano solo dopo averle pensate. La parte più importante del racconto iniziò poco dopo Mezzolombardo, io ovviamente ascoltavo.
Avevo programmato da tempo un'escursione in alta Val di Saènt, sperando in una giornata di sole ma il giorno stabilito, il 5 novembre, c'è una nebbia fitta che limita la visibilità a poche decine di metri e cade un sottile nevischio. Con Giulio che mi accompagna e conosce quei luoghi come le sue tasche ci guardiamo negli occhi mentre mettiamo lo zaino in spalla con un comune pensiero, vale proprio la pena di proseguire? Non scorgo nemmeno l'imbocco del sentiero, ma giacché siamo qui perché rinunciare? "Saènt non mi ha mai deluso." Dice Giulio. Camminiamo lentamente con un orizzonte ristretto e non potendo vedere lontano, si guarda vicino in tutte le direzioni, anche in basso, si appoggia una mano su uno spuntone di roccia, sul tronco di un albero... si guarda e si ascolta, si impegnano e si scoprono le capacità di tutti i sensi... Un po' di luce viene dal basso, dai fili d'erba secca rivestiti di una sottile lamina di ghiaccio, ricurvi come archi fino a toccare terra e poi dai licheni gialli che punteggiano qua e là come piccole stelle i sassi e la roccia scura. Tutto sembra perdersi nel vuoto, i primi piani sfumano nell'infinito. Il gorgoglio di ogni rigagnolo accompagna quel silenzio, si sente l'acqua scorrere sotto i piedi. Lo interruppi solo un momento per dirgli che spesso mi era capitato di pensare che il rumore dell'acqua, qualsiasi rumore d'acqua, aiutasse a sentire il silenzio. Fece un cenno d'assenso con la testa e continuò il suo racconto. Poco per volta ci sentiamo immersi in un mondo che ci riserva inaspettate emozioni, quel tempaccio non ci dà più fastidio. Probabilmente siamo gli unici uomini a Saènt quel giorno ma le tante impronte degli zoccoli di camosci e cervi lungo il sentiero ci fanno sentire in buona compagnia. In quell'ambiente ovattato gli animali si sentono tranquilli, noi facciamo fati-ca ad accorgerci di loro ma pure loro avvertono in ritardo la nostra presenza e sembra di cogliere il loro stupore quando alzano la testa, annusano e la girano di qua e di là prima di scappare veloci nel vedere degli intrusi nel loro mondo, con quel tempo. Le distanze si accorciano incredibilmente. La punta di un sasso la si può confondere con la testa di un camoscio. Facciamo scommesse. "Quello è un maschio di due anni!" sentenzia Giulio dall'alto della sua esperienza, ma qualche volta anche lui è tratto in inganno. Siamo nel regno dei camosci, in tre o quattro ore ne conteremo più di cento oltre ad alcuni cervi. Se ne vedono di isolati e a gruppi di 2-3 fino a 20-30. Capita spesso di sentirli prima ancora di vederli ed è un rumore che si avverte in due tempi, quando battono il terreno correndo e saltando e quando, di lì a poco, è il terreno stesso che rimbomba: La pernice bianca si vede difficilmente in montagna, figurarsi quel giorno. Ma il suo canto è inconfondibile e così vicino che forse è lei che guarda tranquillamente noi. All'improvviso un frullo d'ali, poco sotto il sentiero di Campisol, sopra una corona di rocce. È l'aquila che da un ramo di un larice si libra in volo distendendo le sue enormi ali prima di scomparire nel vuoto. Nemmeno gli alberi accettano di essere comprimari nel palcoscenico della natura. Oggi nella nebbia, larici e abeti nascondono le loro chiome protese verso il cielo e mettono in bella mostra i loro tronchi che per noi diventano un sicuro appoggio e validi punti di orientamento tornando e scendendo verso Prà di Saènt. Ce ne sono di giganteschi che spuntano tra quelle pietre. In due non riusciamo ad abbracciarli. Alcuni hanno la circonferenza all'altezza del nostro petto di quattro metri e più e poi hanno forme così bizzarre e sorprendenti! Chi l'avrebbe detto, si lascia scappare il Giulio, eppure sono passato tante volte da questa valle. Sarebbe bello ricavare un sentiero su questo macereto per permettere a tanta gente e con ogni tempo di avvicinarsi ai maestosi giganti che da secoli vegliano sulla pace che regna in questa valle. Chissà quante cose avranno da raccontare a chi farà loro visita e li guarderà con ammirazione, stupito!
Dopo una breve pausa, girandosi quasi di scatto, come se avesse dimenticato qualcosa, mi disse che Giulio, da sempre grande appassionato di fauna, da quel giorno divenne anche un amante degli alberi. Poi Marcello smise di parlare, guidava come sempre piuttosto vicino al volante e aspettava che dicessi qualcosa. Se soltanto si fosse girato si sarebbe accorto subito che anch'io, in quel momento, stavo provando a pensa re le parole. Il racconto era stato affascinante e aveva creato, come spesso succede in questi nostri viaggi, un'atmosfera magica in quella vecchia macchina grigia. Facevo fatica ad aprire bocca per chiedergli, io che non conoscevo quei posti, quanti fossero i larici e quanto avrebbe dovuto essere lungo il sentiero e quanto ripido. Mi chiedevo poi cosa potessero avere di straordinario quei larici, in fondo erano solo alberi e Marcello, tecnico forestale, di alberi ne vede tutti i giorni. Dissi quindi solo cose vaghe ma ben pensate e dopo poco eravamo fuori dalla macchina davanti al Centro Visita. Avremmo comunque proseguito da soli e avremmo dovuto risalire in macchina per alcuni chilometri ma quella sosta era d'obbligo. Marcello doveva salutare il Giulio e gli altri operai del Parco, perché lui, che per il Parco dello Stelvio lavora da tempo, sostiene sempre che il Parco non è solo ambiente naturale, animali e piante, è anche gente, uomini e donne che in queste terre vivono e lavorano. Un saluto veloce a cui ovviamente partecipai anch'io per le presentazioni di rito. Facce segnate e sorrisi timidi, un po' come la loro valle. Pensavo che avremmo usato la macchina grigia ma uno di loro si offerse per darci un passaggio con un fuoristrada del Parco, così potevamo arrivare già fino a malga Stablèt e poi proseguire a piedi verso i larici di Marcello. C'era il sole.